Con l’arrivo della primavera, gli impegni nei campi si presentavano puntuali e numerosi.
Verso marzo, ad esempio, si doveva preparare il terreno per “sumenà ul furmentuu” (la semina del granoturco). Per questa operazione era necessario spargere prima il “rùu” (letame), che col carretto lo si andava a prendere persino a Milano, e quindi, dopo aver arato, si passava l’erpice per sminuzzare la terra.
La semina veniva fatta a mano, con un arnese detto “ficùu”: ecco perché l’intera attività impegnava i contadini dall’alba al tramonto.
A mezzogiorno le donne portavano loro il fiasco d’acqua fresca e un frugale pasto, consumato alla spicciolata durante l’unica pausa che si concedevano.
Anche il mese della fienagione costringeva il contadino a veri e propri tour de force. Non era dunque difficile scorgere nei prati figure di contadini falciare l’erba con la ranza e che di tanto in tanto si fermavano ad arrotare l’attrezzo con la “cut”, una pietra levigatoria, custodita nel “cudee”, un fodero di corno.
L’erba, dopo essere stata sparsa ad essiccare al sole, veniva raccolta col rastrello e caricata il più possibile sul carretto, per essere riposta nei fienili coi gerli, percorrendo innumerevoli viaggi su per verticali e pericolosissime scale a pioli.
Nelle corti si spandeva un tipico odore di fieno.
(testo di Domenico Carozzi)