Se oggi, durante i matrimoni assistiamo a vere e proprie sfilate di auto sempre più lussuose, una volta, al massimo, gli sposi venivano accompagnati da sopra un carretto infiorato, trainato da un cavallo, oppure, per la maggior parte dei casi, avevano al seguito uno stuolo di parenti che, a piedi, percorrevano la via che dalla casa portava alla chiesa. Era dunque inevitabile che in strada si formassero ali di curiosi, spinti dal desiderio di rimirare gli abiti eleganti, confezionati per l’occasione da mani esperte di sarti artigiani e di rimediare qualche confetto, un’autentica leccornia, considerato il periodo di “magra” di quel tempo.
Il fatto di essere invitati al matrimonio costituiva quindi un privilegio, un’occasione più unica che rara, perché alle nozze si partecipava soprattutto per prendere parte al lauto pranzo. Per l’occasione veniva ingaggiato un cuoco provetto, e il tutto si consumava tra le mura domestiche.
Una di queste mitiche figure che ben si destreggiavano dietro i fornelli, era ad esempio il signor Carlo Stucchi, conosciuto da tutti con l’appellativo di “Carlìn furmaé”, perché proprietario di un negozio di formaggi che si trovava all’incrocio di via San Gervaso con via Vittorio Emanuele. A volte, invece, veniva richiesto l’intervento di una cuoca, di nome Carolina Motta.
Al termine della festa, nella quale ci si cimentava in coinvolgenti cori e qualche “regiù” si abbandonava al vino, anche le famiglie del cortile beneficiavano di qualche appetitosa portata. Era indubbio che nulla veniva avanzato.
Poi, pian piano il progresso e il benessere dirottavano i commensali verso i ristoranti. Anche qui però, fino ad un determinato periodo, gli invitati (in modo particolare gli anziani) solevano munirsi di sacchetti o carta stagnola per raccattare il cibo che non veniva consumato. Sarebbe stato un vero e proprio spreco lasciare che venisse portato via il piatto con le porzioni magari ancora intatte, quando a casa la cucina non era delle più generose.
(testo di Domenico Carozzi)