Un tempo, a differenza del rottamaio/straccivendolo (ul strascè) e del mercante che generalmente tornavano ogni settimana a ravvivare la vita dei cortili, tutti gli altri artigiani ambulanti generalmente passavano una sola volta a stagione.
Tra le figure più significative ricordiamo l’arrotino (ul mulitta), un uomo che di solito proveniva da Caspoggio, una località della Val Malenco. Si spostava da un paese all’altro spingendo il suo “trabiccolo” su cui erano applicate una ruota in pietra, un rubinetto dal quale lentamente gocciolava l’acqua e un cassetto che, oltre a contenere alcuni attrezzi e degli stracci, costituiva una preziosa tasca dove veniva custodito il pane quotidiano faticosamente guadagnato.
A lui venivano dati da massaie e contadini, forbici, coltelli e attrezzi da lavoro da affilare. Il mulitta veniva ospitato dai contadini e dormiva nei fienili; spesso barattava cibo e riparo con il suo lavoro.
Anche lo spazzacamino era un personaggio piuttosto particolare e “pittoresco”. Girava da una località all’altra con la sua bicicletta, a cui erano legati dei bastoni che fungevano da attrezzi. Sulle spalle aveva una boccia con alcune corone di lamelle in ferro che servivano per togliere la fuliggine dalle canne fumarie dei camini. Dopo alcune operazioni eseguite dalla sommità del tetto, lo spazzacamino imponeva al garzone di infilarsi sotto la cappa del camino per un’ultima pulizia delle pareti fuligginose, raschiandole con una spazzola in ferro. Per loro era dunque inevitabile tingersi di nero e respirare un malsano pulviscolo.
In questi anni, oltre naturalmente ad altri artigiani ambulanti come l’umbrelé (l’ombrellaio) e ul cadregatt (l’impagliatore di sedie), in paese vi erano altri mestieri che trovavano stabile dimora in scure, rustiche e piccole botteghe, come ad esempio ul selé (sellaio), ul magnoo (lo stagnino) e ul casular (ciabattino).
Il sellaio (vedi articolo a parte) era un artigiano abile nella costruzione e riparazione di selle, cinghie e altri articoli in cuoio che costituivano l’“abbigliamento” per asini e cavalli (i “finimenti”). Una volta infatti, per il lavoro dei campi, si contava sull’aiuto degli animali da soma. Con la loro scomparsa, sostituiti da trattori e macchinari sempre più moderni, anche il lavoro di quest’uomo di conseguenza è venuto meno.
Lo stagnino era così chiamato perché aggiustava i fondi delle pentole e dei paioli di rame che erano foderati all’interno con lo stagno e che, a causa dell’usura, si assottigliavano.
Quando si entrava nella bottega del ciabattino, di solito lo si trovava intento al lavoro seduto davanti ad un basso tavolino, sul quale riponeva tutti i suoi attrezzi.
Una volta le scarpe si bucavano facilmente perché la suola era di cuoio. Il ciabattino la toglieva per rimettere quella nuova che ritagliava da un foglio di cuoio precedentemente messo in ammollo. Dopo alcune operazioni di incollatura, cucitura e inchiodatura, prima di riconsegnare le scarpe il calzolaio le lucidava con cura in modo da farle sembrare ancora nuove. Una volta si possedeva solo un paio di scarpe e quindi non ci si poteva permettere di lasciarle in riparazione per lungo tempo.
(testo di Domenico Carozzi)